sabato 16 marzo 2013

I danni agricoli del cinghiale in Toscana

Sebbene non sia un criterio obiettivo e preciso, poiché ignora quasi del tutto il danno ambientale in senso lato, lo studio analitico delle denunce effettuate dagli agricoltori ai fini del rimborso dei danni da fauna selvatica indicano grosso modo le principali tipologie di danno. Considerando che tutte le Regioni Italiane applicano l’articolo 26 della Legge 11 febbraio 1992 n. 157, è possibile dedurre che, in Italia, oltre l’80% dei rimborsi dei danni da fauna selvatica è attribuito al cinghiale (Toso & Pedrotti, 2001; Toso, 2006) e che le colture maggiormente coinvolte risultano essere quelle di mais (Zea mays). I campi di mais (foto 42) sono utilizzati dai cinghiali sia per il nutrimento che essi traggono dal consumo delle pannocchie, sia per il rifugio che la coltura offre loro quando l’altezza media delle piante raggiunge il metro e mezzo. Nei confronti del mais l’impatto della specie si concentra sostanzialmente in due fasi distinte dello sviluppo della pianta: nel periodo immediatamente successivo alla semina, con asportazione del seme e quindi successiva perdita di una certa quota di raccolto e nella fase della maturazione latteocerosa della pannocchia (foto 42), con abbattimento del fusto e asportazione del prodotto (Macchi et al., 1995).
Foto 43. Asportazione del prodotto in fase di maturazione latteo-cerosa I danni registrati sono provocati su colture specifiche ed il fenomeno è spiegato dalla necessità di scegliere gli alimenti coltivati in funzione delle interazioni con una serie di fattori ambientali che indirizzano le scelte alimentari delle popolazioni di cinghiale. Ad esempio, nelle zone di pianura sembra che i danni ai prati coltivati siano maggiori rispetto alla montagna o alla collina dove i pascoli sono devastati dall’azione di rivoltamento del cotico erboso (rooting) con effetti di erosione anche pericolosi in aree con pendenza pronunciata (Massei & Toso, 1993).
Una presenza eccessiva di cinghiali in determinate aree si rende responsabile di danni sui cereali autunno-vernini lungo tutto l’arco del ciclo colturale: asportazione del seme subito dopo la semina; attività di rooting durante la levata; pascolamento durante la fase di accestimento e calpestio; asportazione di prodotto dalla maturazione lattea al raccolto.  Colture sulle quali i danni sono abbastanza limitati per quanto riguarda l’estensione ma molto elevati se si considera l’aspetto economico sono gli alberi da frutto inclusa la vite (foto 43 e 44). Durante i periodi secchi e siccitosi (fine estate) non è raro osservare cinghiali che soddisfano i fabbisogni di acqua e zuccheri attraverso l’ingestione di grappoli di uva. Foto 44 e 45. Grappoli d’uva strappati da cinghiali durante invasione di vigneto Danni considerevoli sono lamentati in zone di importanza vitivinicole con cultivar pregiate (Toscana, Piemonte) dove il risarcimento elevato contribuisce a far lievitare l’ammontare degli indennizzi. Tra i principali fattori che influenzano i danni alle coltivazioni vengono riconosciuti con certezza: - Alto valore energetico degli alimenti coltivati; - Concentrazione delle risorse agricole in spazi ristretti e facilmente accessibili; - Ampiezza delle aree di transizione tra il bosco e le aree aperte (Lescourret e Gerard, 1985); - Distanza dei campi coltivati dal bosco e dalle aree di rifugio(Wilson C. J., 2004; Calenge C. et al., 2004); - Disponibilità risorse trofiche nel bosco (Vassant e Breton, 1986);
Una delle maggiori difficoltà che si incontrano per la valutazione dell’impatto socio-economico imputabile al cinghiale consiste nell’ottenere informazioni affidabili sulle consistenze delle popolazioni e sull’entità dei prelievi che determinano un aumento dei problemi connessi alla pianificazione delle attività gestionali e rendono difficoltosa l’individuazione di un’incisiva strategia complessiva per la gestione della specie. Il forte impatto negativo che il cinghiale esercita su alcune attività di interesse economico contribuisce, inoltre, ad acuire i contrasti tra categorie sociali (cacciatori, agricoltori ed enti pubblici) con interessi divergenti. L’aumento esponenziale dei conflitti e delle polemiche tra le parti, testimonia l’importanza e l’attualità del problema. Il proliferare delle richieste di risarcimento dei danni, di contenimento delle popolazioni e dei piani di gestione e di controllo, confermano la necessità e l’urgenza di individuare strategie organiche e complessive in grado di appianare conflitti apparentemente insanabili. Le strategie adottate devono contemporaneamente garantire un’adeguata conservazione della specie in natura e una sufficiente disponibilità di soggetti per un razionale utilizzo ai fini venatori. Una scelta strategica in grado di soddisfare i parametri sopra esposti è resa più difficile dall’attuale situazione gestionale e dall’eccessiva frammentazione del territorio in istituti di gestione faunistica con differenti finalità. La limitazione dell’attività venatoria all’interno degli istituti di protezione della fauna (creati con finalità di conservazione per altre specie) e la differente programmazione, spesso adottata dalle Aziende Faunistico-Venatorie impediscono, di fatto, un’adeguata pianificazione della gestione di una popolazione nel suo complesso ed accresce le tensioni sociali nei rapporti tra categorie caratterizzate da interessi contrastanti. L’impatto economico del cinghiale sull’ecosistema agricolo può essere quantificato valutando i valori delle perdite dirette delle produzioni agricole e delle spese sopportate per la prevenzione dei danni. Un ulteriore valore economico può essere stimato ed è quello derivante da un investimento alternativo producibile considerando la somma delle due voci precedenti. Da un’indagine realizzata dall’ex Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica (oggi ISPRA) risulterebbe una somma di circa 9 milioni di Euro che la Pubblica Amministrazione dovrebbe caricare a bilancio ogni anno per l’indennizzo dei danni causati dagli ungulati selvatici alle colture agricole. La stessa indagine farebbe emergere che la cifra risarcita risulterebbe pari all’86% del danno accertato il che significherebbe che la cifra complessiva dell’impatto economico negativo sul sistema agricolo attribuito agli ungulati sarebbe superiore ai 10 milioni di Euro. In più, quasi il 90% dei danni è imputabile al cinghiale per un ammontare di più di 9 milioni di Euro (Carnevali L. & Riga F., 2007).
In realtà l’incidenza economica negativa, ascrivibile al cinghiale, risulterebbe molto più elevata di quanto sopra riportato, sia perché in alcune Regioni i dati relativi ai danni da fauna selvatica sono frammentari, non omogenei o peggio ancora scorrettamente raccolti, sia perché molti agricoltori non denunciano i danni poco consistenti e non hanno sufficiente fiducia nelle istituzioni. Quest’ultima considerazione deriva dal fatto che, rispetto al danno ricevuto, il danno stimato e risarcito risulta essere molto inferiore. Una comparazione tra il numero di cinghiali uccisi per 100 ha e i danni risarciti indica che a grosse superfici danneggiate corrispondono bassi numeri di cinghiali abbattuti (Mazzoni della Stella et al., 1995). Carnevali & Riga (2007) hanno calcolato, su di un campione di 12 regioni, il costo medio per cinghiale abbattuto (importi liquidati per danni/cinghiali abbattuti in azioni di caccia) quale indice della sostenibilità economica dell’interazione tra la specie e le attività antropiche. Tale costo medio totale per cinghiale abbattuto è risultato pari a 62 Euro, con profonde differenze tra le diverse regioni: Liguria e Toscana (25 € e 26 €/capo); Valle d’Aosta, Piemonte e Lazio (198 €, 176 € e 120 €).

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